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Pellegatta pubblica uno squisito disco, ma a tratti fuori dal tempo

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Orbita”, l’ultimo lavoro di Pellegatta, è un album che suona come un unicum: fuori dalle mode, dalle playlist editoriali, dai trend dell’attuale scena cantautorale italiana. Ascoltandolo, si ha l’impressione che l’artista non abbia prestato troppa attenzione alle nuove uscite, ai trend invadenti di Tik Tok e a Sanremo, che si è aperto incredibilmente anche alla scena indie, ora mainstream e nazionale, rappresentativa di una generazione a metà, tra l’anima rock degli Afterhours e quella notturna e tormentata della scena trap. Pellegatta forse non ha assorbito “suono del momento”, e non sappiamo se sia un bene.  Forse è proprio qui la forza di questo disco – o, a seconda dei gusti, il suo limite.

È un disco che resta scollegato dalla contemporaneità, lontano dall’universo urban viscerale e brillante della scena milanese – quella che flirta con il pop internazionale che ascoltiamo in contesti come il Primavera Sound o che si fonde con l’estetica di etichette come Undamento, un’estetica musicale arrivata persino a Sanremo grazie a Joan Thiele. Qui i riferimenti non sembrano affatto quelli di artiste come Madame, VV, Ditonellapiaga, Rose Villain o La Niña, che mescolano elettronica, R&B, femminilità esplicita e ricerca stilistica.

Orbita sembra piuttosto muoversi in un’altra orbita, appunto: quella di un cantautorato che guarda indietro, più che attorno. Nonostante la produzione si sforzi – talvolta in modo un po’ innaturale – di avvicinarsi a sonorità elettroniche, quasi ballabili, il cuore del disco resta altrove. Si sentono echi delle grandi cantautrici italiane e internazionali dei primi Duemila: Cristina Donà, Carmen Consoli nei suoi momenti più lirici, Elisa degli esordi, ma anche Heather Nova, Emilíana Torrini, Feist.

Il disco è curato, prodotto con attenzione – anche grazie alla presenza di Paolo Iafelice – ma mantiene una dimensione casalinga. Pellegatta non suona come una cantautrice ambiziosa, nel senso più istituzionale del termine. Piuttosto, sembra scrivere canzoni perché non può farne a meno, urgenti e autobiografiche, come se fosse un diario musicale a cui è stata data una confezione, senza la pressione del mercato o delle aspettative social.

Pellegatta vive e lavora tra Modena e Milano. Paradossalmente, pur essendo vicina a un centro musicale fertile come Milano, sembra del tutto avulsa dalla sua scena contemporanea. E se questa estraneità potrebbe essere un pregio – a patto di una voce davvero unica – nel suo caso rischia di diventare un punto debole. Non c’è la forza per affermare una visione personale forte, ma piuttosto l’eco sbiadita di riferimenti passati, che non riescono a dialogare col presente.

Complessivamente, Orbita si fa ascoltare in modo scorrevole: è coerente, curato, mai fastidioso. Ma manca l’acuto, la scintilla. Non lascia davvero il segno. È come un bel quaderno scritto a penna blu: ordinato, personale, ma difficile da ricordare.

Un peccato, perché la volontà di esporsi da parte di Pellegatta si sente. Ma la confezione – più che l’intenzione – non è all’altezza del passo che vorrebbe compiere.

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