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Quando ho incontrato TGP: Apice

Sono un narciso pelato impegnato da sempre a convincermi di essere l’eroe delle mie sconfitte

Intervista a cura di Davide Lucarelli

Apice è un cantautore spezino, è il vincitore del Premio De Andrè 2019 ed è l’autore di un disco di cantautorato vero intitolato Beltempo che ci ha appassionati e di cui potete leggere qui.

Abbiamo avuto l’opportunità di chiedergli qualcosa riguardo se stesso e la sua musica.

Ciao Apice. Per iniziare ti chiederei di raccontarti un po’, di fare un piccolo riassunto di te stesso se possibile.

Ciao, sono Apice, che è il mio cognome e (non solo) uno slancio megalomane, ho appena pubblicato un album che a me piace molto con La Clinica Dischi e leggo tutti i giorni Tutti Giù Parterre.

 

Parliamo ora della tua musica. E’ da poco uscito “Beltempo”, il tuo primo album. Vuoi parlarci un po’ di come è nato?

È il risultato di un anno di lavoro e di selezione, figlio di una gestazione complicata. Ogni momento della vita è particolare e delicato a sufficienza da poterci scrivere un album, secondo me; sicuramente, nel periodo di scrittura di Beltempo avevo bisogno di nuove chiavi di lettura del mondo, per non vedermelo crollare addosso. Le canzoni alla fine, almeno per me, sono finestre aperte sulla strada, chiavi passpartout che aprono anche porte di altri, e non cancelli dietro i quali trincerarsi per difendere il proprio orticello di autoreferenzialità. Ho la pretesa, l’urgenza, di parlare a qualcuno, e questo disco io credo nasconda una dedica duplice: a me e a tutte le occasioni non colte di essere un po’ più pop anche nella vita, senza arrampicarmi sulle mie quotidiane babeli di parole.

 

 

Nel 2019 (è passato già un anno… come si invecchia!), hai vinto il prestigioso Premio De Andrè. Puoi raccontarci quella esperienza? Cosa ti ha lasciato?

Ma io credo che i Premi in Italia siano tutti pesanti, perché la nostra storia d’autore è ricca di nomi tali da poter sfiduciare ogni onesto concorrente a volersi accollare il peso di vincere un De André, un Tenco, un Bindi, un Ciampi. Quindi vincerne uno ti fa sentire, da bravo figlio dell’epoca nuova, nell’urgenza vitale di capire se la vittoria ti abbia elevato alla possibilità di dirti finalmente (e di dirlo soprattutto alla nonna e alla mamma) “cantautore” oppure ti stia schiacciando con il suo peso storico in un vortice inestinguibile di dubbio esistenziale e inadeguatezza; a me è andata bene, il giorno dopo aver vinto il Premio intitolato al padre spirituale di ognuno di noi scribacchini della canzone me ne sono totalmente dimenticato. Con certe felicità, è bene fare così: l’anima, altrimenti, non cresce più, come direbbe Pasolini.

 

 

I brani che mi hanno colpito di più del tuo album sono “Inutile” e “Ciao”. Ti andrebbe di spendere qualche parola su di essi?

Inutile è la personale invettiva a me stesso, inteso come ultimo e disperato risultato, esattamente come tanti miei coetanei, di una vasta operazione di mala gestione culturale. I direttori artistici e gli addetti alla cultura con cui se la prendeva Battiato quarant’anni fa sono tutti ancora al loro posto, e continuano a lavorare nella dissennata direzione di rendere ogni giorno la vita impossibile a chiunque creda ancora che l’arte sia forse tutto quello che conta: il giorno che a scuola non s’insegneranno più discipline come Musica e Arte, allora avremo minato le basi dell’evoluzione umana. Non importa in che anno sia nato Bach, o quando Mozart abbia scritto la sua prima sonata o in che anno Michelangelo abbia dipinto la Cappella Sistina, importa che qualcuno ci insegni la via dell’ascolto, che rimane la base della convivenza e coesistenza civile, e quella del bello, perché saper distinguere tra cosa è bellezza e cosa non lo sia (e ci sono dei giudizi che travalicano il concetto relativo e detestabile di è bello ciò che piace) crea nell’animo umano un sistema di allarmi pronti a scattare di fronte alla prima cosa “brutta” che ci troviamo davanti, accendendo il televisore o camminando per strada. Ciao invece è la sperimentazione di un punto di vista diverso, quello femminile, in una comunissima storia di disastro amoroso; sono un narciso pelato impegnato da sempre a convincermi di essere l’eroe delle mie sconfitte, Ciao è stato un esercizio ginnico e intellettuale finalizzato a ricordarmi che nel dolore siamo tutti simili, e nella perdita non c’è guadagno per nessuno. E che il più disperato non sempre è l’eroe della storia.

 

Per concludere, una domanda sul futuro. Quali sono ora le prospettive di Apice? Cosa bolle in pentola?

Suonare tanto e continuare a leggere Tutti Giù Parterre. Magari, fra una lettura e l’altra, scrivere qualche canzone che non mi faccia sentire poco ispirato, in questo drammatico momento in cui tutto sembra andare bene. Ora che l’ho detto, mi aspetto saette e tempesta. E me le merito.

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