
Ci sono canzoni che non servono a ballare, ma a respirare. Habitat dei Drum N’ Jack è una di queste.
È uscita il 13 giugno, ma sembra che aspettasse lì da sempre, in un angolo della testa, pronta a metter voce a quello che tanti non riescono a dire: che a trent’anni spesso non sai più chi sei. Che cresci con i sogni degli anni ’90 e ti ritrovi adulto senza sapere quando sia successo davvero.
Habitat parla della nostra generazione. Quella cresciuta tra gli 883 e le VHS di Tarantino, tra gli Articolo 31 e Ligabue, tra illusioni romantiche e la cruda realtà dei mutui, dei lavori precari, delle aspettative familiari. Parla di quelli che sognavano una vita diversa e oggi fanno fatica a riconoscere la propria. E lo fa senza filtri, con un testo diretto che sa di verità.
Il sound è quello che ti aspetti dai Drum N’ Jack: un pop punk viscerale, incalzante, ma stavolta più spoglio, più crudo. Niente fronzoli. Solo emozioni nude. Le strofe ti accompagnano come pensieri in macchina alle tre di notte, e poi arriva il ritornello: uno sfogo, un urlo, quasi un pianto. Quel “grido di un uomo imprigionato in una vita che non sente sua” non è solo una frase: è un pugno nello stomaco per chiunque si sia mai sentito fuori posto, fuori tempo, fuori da sé.
Ma non è solo tristezza. Dentro Habitat c’è anche speranza. C’è quella domanda che ti rimane appiccicata addosso: “Ma chi l’ha detto che a 30 anni non è più concesso avere un sogno?”
E allora ti fermi un attimo. Pensi. Magari ti commuovi. Magari ti arrabbi. Ma alla fine, per qualche strano motivo, ti senti meno solo.
Habitat non è solo una canzone. È una carezza ruvida. Una spalla su cui appoggiarsi quando senti che tutto ti sfugge. Un modo per ricordarci che va bene sentirsi persi, ogni tanto. E che, forse, stiamo solo cercando il nostro vero habitat.
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